“In verità, in verità io vi dico: se un chicco di
grano, caduto in terra, non
muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto”
(Gv 12, 24).
La morte ha condizionato nei secoli la
vita degli uomini, è stata l’elemento fondante delle religioni, ha avuto
un ruolo caratteristico nel pensiero filosofico, è stata l’ispirazione
per eccellenza degli artisti. In sintesi, il fatto è che la morte -
grande mistero esistenziale - ha sempre spaventato l’umanità e quindi
tutte le civiltà ne hanno fatto l’argomento centrale della propria
natura. Rispetto agli atei, i seguaci di culti orientali, l’ebraismo e
l’islam, i cristiani considerano la morte in modo del tutto particolare.
Eccetto gli atei che credono che la morte sia la fine totale e
irrimediabile della vita dell’individuo, chi professa una qualsiasi
religione è certo che l’anima sopravvive alla morte. Noi cristiani,
però, siamo rassicurati sulla redenzione e sulla salvezza dal Cristo,
nostro Dio fatto uomo, che con il suo insegnamento ci ha indicato
direttamente - senza avvalersi di intermediari - la via della verità e
con la sua passione, morte e risurrezione ci ha garantito un’altra vita
dopo il trapasso. Infatti, per il Cristianesimo l’Evento Pasquale è
l’elemento fondatore che sta al centro del Credo e alla base di tutta la
nostra fede. E’ di questo evento che “si fa memoria” ogni volta che si
celebra l’Eucarestia. Ed è la risurrezione di Gesù da morte che genera
nell’uomo la speranza, virtù teologale coesistente con la fede e la
carità, che anche tutti noi supereremo il peccato e la morte per
raggiungere, tramite Cristo, il Padre. L’aria liberatrice portata da
Gesù, se pure in sintonia con le antiche promesse che Dio aveva fatto ai
Profeti nell’Antico Testamento, si rivolge in modo radicale e perentorio
non a un popolo, ma a tutti gli uomini, chiamati uno a uno. “Dio,
nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino
alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il
mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, che ha dato se
stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,4-6). Mi è rimasto impresso uno
scritto attribuito in origine a Sant’Agostino e ripreso da Henry Scott
Holland, canonico della cattedrale di St. Paul di Londra, che denota
come la morte per il pensiero cristiano sia un semplice passaggio
tutt’altro che definitivo e drammatico:
La morte non è
niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto
nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per
l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato,
che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre
usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o
triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle
piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Prega, sorridi,
pensami!
Il mio nome sia
sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia
d’ombra o di tristezza.
La nostra vita
conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima,
c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai
tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto
bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la
mia pace.
Dalla riflessione di Sant’Agostino
emerge la tradizione cristiana del culto dei morti che ritiene i defunti
riposare in pace aspettando la risurrezione finale. Questo pensiero,
esclusivamente evangelico, è la ragione per cui i cristiani fin dalle
origini esclusero ogni disperata tristezza nelle loro cerimonie funebri;
cosicché, mentre i pagani pagavano delle donne (le prèfiche) con
il compito di piangere un simulato dolore, i cristiani cantavano salmi e
l’alleluia pasquale della risurrezione. Purtroppo la rilevanza del culto
dei morti nella società civile attuale si è notevolmente indebolita, di
conseguenza il rapporto con i defunti che ha accompagnato per millenni
lo sviluppo delle civiltà ha perso la capacità di mettere a fuoco il
grande tema della morte. La società post-moderna in cui viviamo, in
termini sociologici si limita a occultare e a rimuovere il fatto della
morte, riproducendo in forme nuove un blocco collettivo verso l’ignoto.
Da noi si dà per scontato che il culto dei morti coincida con la
religione e si delega, quindi, alla Chiesa cattolica il compito di
gestire il rapporto con l’al di là, mentre l’interesse dominante,
non solo della scienza ma anche dell’intera società, si concentra su
l’al di qua. E’ bene rilevare che in questa situazione la Chiesa
poco fa per spiegare ai propri fedeli che, come sostiene Sant’Agostino,
il compito di mantenere il rapporto con i nostri defunti compete a tutti
noi e non è delegabile. Un solo esempio: è proprio opportuno che durante
le Messe si legga una lunga serie di nomi di defunti cui si fa memoria
su richiesta dei congiunti? Questa prassi riscontrabile recentemente in
alcune parrocchie (per fortuna non in tutte) non fa che avallare la
convinzione che noi viventi ci possiamo svincolare dal mantenere uno
stretto rapporto diretto con i nostri cari che sono in attesa della
risurrezione delegandone il ricordo e la preghiera alla Chiesa.
Personalmente auspico che, specialmente noi cristiani, continuiamo a
sentirci vicini ai nostri defunti con la preghiera, parlandoci come se
fossero “dall’altra parte, proprio dietro l’angolo” e praticando
il cimitero come luogo d’incontro periodico, non solo una sola volta
l’anno in occasione della ricorrenza del 2 novembre.
Gian Paolo Di Raimondo
Roma, 1 aprile 2012