BRUTTA COSA LA “DISCRIMINAZIONE”
La
democrazia si consolida se riesce a tutelare e promuovere i diritti delle
minoranze e l’uguaglianza. Le discriminazioni minano le basi delle relazioni
sociali e i principi costituzionali.
Sarebbe sufficiente tenere ben presente questo basilare principio della teoria
della democrazia per rigettare qualsiasi tipo di discriminazione: da quella
razziale – la più grave e purtroppo ancora molto diffusa – a quella delle donne,
passando per le estese forme di omofobia. E’ necessario tener presente che dalle
specie più blande di discriminazione è facile – come la storia insegna – passare
a drammatiche varianti di violente segregazioni (apartheid) e magari stermini di
massa per i quali ci si dovrebbe vergognare di appartenere al genere umano. I
pericoli della degenerazione delle discriminazioni sono tali e tanti che
dovremmo aborrire anche quelle che, a prima vista, sembrano solo semplice
orgoglio di appartenenza ad una etnia, religione o particolare settore della
società. Molti autorevoli sociologi che studiano il sistema delle
discriminazioni razziali concordano che la maggior parte degli operatori del
diritto e anche sinceri democratici tendono, purtroppo, a rifiutare che il
razzismo possa essere “parte della struttura delle nostre istituzioni legali”,
che “sia norma e non aberrazione” e che, anche il miglior diritto
antidiscriminatorio per ora in vigore, sia limitato rispetto all’effettiva
profondità del problema. E’ chiaro che con tali presupposti, ogni azione di
coloro – organizzazioni o singoli cittadini – che difendono i diritti delle
minoranze e dei migranti abbia poco effetto concreto sul fenomeno. La Caritas
(Europa, 2006) denuncia che gli atti, più o meno violenti, a danno di migranti
e/o di membri di minoranze etniche sono in stretto rapporto con le persistenti
condizioni e opportunità di vita diseguali in cui versano in Europa le
popolazioni di origine straniera. E pertanto, quanto più le persone sono
percepite come parte di un gruppo socialmente inferiore, tanto più discriminarle
diventa facile. La causa di tali differenze esistenti tra i vari paesi europei
non dipende certo dai proclami scritti nelle Costituzioni e nei trattati
internazionali riguardo il godimento dei diritti fondamentali senza distinzioni
di razza, lingua, condizioni personali e sociali, in quanto su ciò esiste
perfetta concordanza. La differenza nasce dalle limitazioni e bilanciamenti che
i singoli paesi pongono a tali universali principi giuridici, specialmente
quando è in gioco “il diritto ad avere diritti” di una categoria particolare
della popolazione. Dimenticando che “il diritto ad avere diritti” non può
derivare da vari criteri di merito o di soddisfacimento di determinati
parametri, ma solo dall’appartenenza alla comunità umana. Molteplici e complessi
sono quindi le componenti in gioco per affrontare seriamente la brutta abitudine
di discriminare le persone in base alla razza, a partire dalla giusta
collocazione del fenomeno nel contesto sociale, per passare alla corretta
interpretazione dei diritti cui devono godere le persone e al superamento dello
stereotipo del “migrante minaccia”, fino a poter disporre di un legislatore
libero da pregiudizi e che non guardi solo al consenso elettorale. E’
sufficiente che si prenda ad esempio quei paesi europei all’avanguardia nel
tutelare i diritti delle minoranze e l’uguaglianza tra le classi sociali. Il
percorso che abbiamo davanti non è semplice, ma ciò non toglie che sia
necessario comunque intraprenderlo, avviando senza indugio quell’itinerario
virtuoso per giungere in tempi ragionevoli al consolidamento effettivo della
nostra democrazia. Ritengo sia ormai giunto il tempo di dare applicazione alla
“Dichiarazione universale dei diritti umani” redatta e promossa dalle Nazioni
Unite addirittura 64 anni fa. In cui il primo articolo così recita: «Tutti
gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati
di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di
fratellanza». Solo
brevemente voglio anche prendere in considerazione le altre due discriminazioni
accennate nell’introduzione: quelle delle donne e dei diversi orientamenti
sessuali. Introduco la mia riflessione su questi argomenti con molta cautela in
quanto trattati dai componenti della mia Chiesa non sempre in maniera univoca.
Un esempio: la differente visione su alcune tematiche inerenti gli omosessuali e
il ruolo della donna nella Chiesa tra la “Leadership conference of women
religious” - l’organizzazione che raduna l’80% delle 57 mila suore americane - e
la “Congregazione per la dottrina della fede”. Un caso che si trascina da anni e
che solo in questi giorni sembra si siano leggermente distesi i toni della
controversia grazie alla mediazione di monsignor Sartain. Alla base, però, della
mia personale opinione desidero riportare una massima che non può essere messa
in discussione da alcun cattolico. Paolo in Galati 3,28 dice: “Non
c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né
femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”.
Purtroppo oggi nel mondo esiste ancora un alto livello di discriminazione di
genere: milioni di donne soggette a violenze fisiche e sessuali con limitata
possibilità di ricorso alla giustizia, bambine che hanno minori probabilità di
andare a scuola se non addirittura di nascere come avviene in Cina e India, il
crudele fenomeno delle mutilazioni genitali subite da 130 milioni fra donne e
bambine in Africa e non solo, il più elevato rischio di contagio Hiv per le
donne che spesso non conoscono le modalità di trasmissione del virus. Queste
sono alcune delle denuncie che emergono annualmente dal “Rapporto Unicef”, ma ce
ne sono molte di più, se si considera il persistente fattore di disuguaglianza
derivante da motivi religiosi presenti soprattutto nei paesi di religione
islamica e la sperequazione sul lavoro attuata anche nei paesi industrializzati.
Bisogna che ci rendiamo conto che la discriminazione femminile è ancora una
piaga mondiale che rende la donna inferiore all’uomo a livello economico,
culturale e sociale. Purtroppo mi sembra si faccia poco o niente per
combatterla. Sull’ultimo fattore di discriminazione preso in considerazione,
quello sull’orientamento sessuale, voglio solo riportare tre significative prese
di posizione: quella di mons. Tony Anatrella, psicanalista, docente alle libere
facoltà di filosofia e psicologia di Parigi [che è poi quella della Chiesa
cattolica], quella di Amnesty International e quella del Parlamento europeo. La
prima che, pur “deplorando con fermezza” le espressioni malevole e le
azioni violente cui sono state e sono oggetto le persone omosessuali (come
sostiene la Congregazione per la dottrina della fede),
mette in guardia dalle conseguenze - esistenziali e sociali - della teoria che
nega la differenza sessuale fra l’uomo e la donna, denunciando i gravi danni
psicologici che può causare l’ideologia del gender sulle generazioni
future. La seconda, nel suo appello alle autorità italiane “No all'omofobia,
sì ai diritti umani delle persone Lgbti in Italia” del 07/06/2012, sostiene
che chiunque ha il diritto ad esprimere senza paura la loro identità di genere e
il loro orientamento sessuale senza il rischio di subire discriminazioni e altre
violazioni e abusi dei loro diritti umani e che le autorità hanno la
responsabilità di proteggere e garantire la loro realizzazione. La terza, nella
risoluzione del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, all’articolo 8 dichiara:
“Il Parlamento europeo … ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a
proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso
sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il
principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al
fine di assicurare la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione
europea senza discriminazioni”. A questo punto, senza approfondire
l’argomento relativo alle varie teorie - genetica e biologica, freudiana o del
disturbo della psiche, ed altre - sulle cause dell’omosessualità e
conseguentemente prendere posizione nello specifico, desidero solo schierarmi
contro ogni qualsiasi forma di discriminazione degli omosessuali e mi domando
perché il Parlamento italiano non riesce ancora a pronunciarsi in merito con
un’idonea legge che, per frenare questa deplorevole tendenza, inasprisca
le pene per chi si renda responsabile di episodi di aggressione e violenza nei
confronti di persone con tendenze omosessuali. Non sarebbe opportuno che lo
facesse? Non riesco a capire perché la legislazione in vigore distingue ancora i
reati di omofobia da quelli razziali.
Gian Paolo Di
Raimondo
gianpaolo.diraimondo@fastwebnet.it
Roma 1° settembre
2012