L’anno della
fede, iniziato l’11 ottobre 2012, si concluderà il 24 novembre 2013.
L’evento aveva come scopo principale quello d’intensificare la
riflessione dei cattolici sulla prima virtù teologale come previsto
dalla lettera apostolica “Porta fidei” con la quale papa Benedetto l’ha
indetto:
“Dovrà
intensificarsi la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in
Cristo a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al
Vangelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello
che l’umanità sta vivendo”.
Pertanto, per ognuno di noi è trascorso un periodo in cui abbiamo
approfondito e meditato in modo specifico sul dono divino di tutti i
cristiani e su come con Esso si convive. Ecco il mio tentativo di dare
forma alle mie riflessioni in merito. Una prima considerazione da fare è
che i doni che Dio ci ha trasmesso con il battesimo – fede, carità e
speranza – devono essere alimentati con la preghiera, la partecipazione
liturgica e l’agire in termini cristiani, altrimenti si indeboliscono e
inaridiscono. Sulla partecipazione alla Chiesa di Cristo, se fatta
esclusivamente come impegno formale perché dettato soprattutto dalla
tradizione, ha detto Gesù in modo esplicito rispondendo a quel tale che
gli chiese se fossero pochi quelli che si salvano (Lc 13,22 - 30).
Anche a coloro che si vantano di aver mangiato e bevuto in sua presenza
e aver partecipato ai suoi insegnamenti, Gesù dice: “Voi, non so di dove
siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Il
Signore riconosce come suoi coloro che amano e praticano la giustizia.
Quindi credo che le porte del Paradiso siano aperte a tutti, credenti e
non credenti. E che, come stigmatizzato da Giovanni Paolo II
nell’udienza generale del 6 dicembre 2000, sia la condotta morale quel
che conta, riconoscendo a tutti “i giusti della terra” il merito di
“costruire il regno di Dio”.
Per avvalorare questa mia convinzione, che non è certamente condivisa da
tutto il Popolo di Dio, mi riferirò a due grandi personaggi della nostra
Chiesa: il cardinale Martini e l’attuale Pontefice papa Francesco. Il
primo aveva istituito nel 1987 nella sua diocesi di Milano la Cattedra
dei non credenti per aprire un colloquio con loro, iniziativa che a
leggere quanto scriveva il porporato gesuita, fu ispirata dal cardinale
Ratzinger. In termini di fede, infatti, non si può essere drastici con
chi non la possiede e sui dubbi che possono nascere anche ai credenti
durante il lungo periodo di una vita e in presenza di particolari
circostanze, ne fa testo Madre Teresa che visse la notte della fede
senza mai far pesare a nessuno questo suo dramma.
La sua carità era così immensa che non venne meno neppure quando la sua
fede vacillò. Diceva il cardinale Martini: “Io ritengo che ciascuno di
noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro,
che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande
pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me
inquieta il credente che è in me e viceversa. E’ importante
l’appropriazione di questo dialogo interiore, poiché permette a ciascuno
di crescere nella coscienza di sé. La chiarezza e la sincerità di tale
dialogo si pongono come sintomo di raggiunta maturità umana”.
Il credo che è in noi deve essere aiutato da un atteggiamento di fiducia
necessario per superare i momenti in cui la fede si rivela incerta,
dubbiosa, difficile da seguire. Non dimentichiamo mai le difficoltà che
dovremo superare per raggiungere il regno di Dio (la porta stretta) e
che tutti gli ostacoli non possono essere superati con la sola fede.
Ecco perché tutti coloro che fanno del bene, vivono secondo una
coscienza retta e praticano la giustizia possono riuscire a varcare
quella “porta stretta” anche se privi della fede cristiana.
A questo proposito papa Francesco nell’omelia della Messa alla Casa
Santa Marta del 22 maggio scorso, commentando il Vangelo (Mc 9, 38-40)
in cui i discepoli mormoravano contro una persona dicendo che siccome
quello “non è dei nostri, non è del nostro gruppo, del nostro partito,
non può fare il bene”, ha fatto notare che Gesù così li corregge: “Non
glielo impedite. Lasciate che lui faccia il bene”. Il Pontefice ha
spiegato che chiusi nel pregiudizio di possedere la verità, “i discepoli
erano un po’ intolleranti”. Per questo, dice il Papa, Gesù «allarga
l’orizzonte», perché «la radice di questa possibilità di fare il bene,
che tutti abbiamo è nella creazione». “Il Signore – ha detto papa
Francesco – ci ha creati a sua immagine e somiglianza, e siamo immagine
del Signore, e Lui fa il bene e tutti noi abbiamo nel cuore questo
comandamento: fai il bene e non fare il male … Cristo non è venuto solo
per i sani, per quelli a posto, ma per tutti.
Il Signore tutti, tutti ci ha redenti con il sangue di Cristo: tutti, non
soltanto i cattolici”. E gli atei? “Anche loro. Tutti! E questo sangue
ci fa figli di Dio di prima categoria! Siamo creati figli con la
somiglianza di Dio e il sangue di Cristo ci ha redenti tutti! E tutti
noi abbiamo il dovere di fare il bene”. Mi sembra molto chiaro, il
Pontefice gesuita ha così condiviso il pensiero di un altro gesuita,
Giovanni Marchesi, teologo di Civiltà Cattolica e docente di Filosofia
all’Università Gregoriana di Roma: “anche gli atei possono andare in Paradiso. Purché abbiano vissuto
secondo una coscienza retta”.
Gian Paolo Di
Raimondo
gianpaolo.diraimondo@fastwebnet.it
Roma, 1°settembre
2013
www.omelie.org/approfondimenti
|