Mons. Oscar Arnulfo Romero è stato beatificato lo scorso 23 maggio a San
Salvador, dopo 35 anni dal suo barbaro omicidio. Tutti noi cattolici
sappiamo come il 24 marzo del 1980 il vescovo di San Salvador fu ucciso
da un sicario del partito nazionalista conservatore sull’altare, mentre
celebrava l’Eucarestia, ma ancora meglio di noi lo sanno i cattolici di
El Salvador e più in generale di tutto il paese centroamericano e
addirittura il continente sudamericano che da tempo lo venerano come
Santo (San Romero de América).
La sua eliminazione avvenne il giorno dopo l’appello che il vescovo
lanciò ai soldati perché non aprissero il fuoco contro i propri fratelli
salvadoregni: “Nessun soldato è tenuto a obbedire a una legge
contraria alla legge di Dio”. La beatificazione di Mons. Romero,
dopo anni di sosta della sua pratica presso la Congregazione per le
cause dei santi, è stata sbloccata da papa Francesco, il primo Pontefice
latino-americano, anche per sciogliere il nodo profondo tra il
cattolicesimo del suo continente e Roma. Un cattolicesimo, più volte
annunciato dal Papa, vicino ai poveri e allo spirito del Vaticano II, di
cui Romero rappresenta un simbolo.
A questo punto è necessario rivedere cosa dice la Lumen Gentium
al n. 8: La Chiesa esiste, come Gesù, “per portare la buona novella
ai poveri, per guarire quelli che hanno il cuore ferito, per cercare e
salvare ciò che era perduto”. Questo diceva Romero, vicino alla
teologia della liberazione e strenuo difensore della causa dei poveri,
riguardo alla personale visione della Chiesa: “Ora la Chiesa non si
appoggia su nessun potere, su nessun denaro. Oggi la Chiesa è povera.
Oggi la Chiesa sa che i potenti la rifiutano, ma che la amano quelli che
ripongono in Dio la loro fiducia. Questa è la Chiesa che voglio. Una
chiesa che non conta sui privilegi ed il valore delle cose terrene. Una
chiesa sempre più slegata dalle cose terrene, umane, per poterle
giudicare con maggior libertà dalla sua prospettiva che è quella del
Vangelo, dalla sua povertà” (28.8.77). E per confrontare le affinità
di visione delle aspirazioni per una Chiesa post-conciliare, ecco cosa
pensa papa Francesco: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i
poveri!” (Aula
Paolo VI, 16 marzo 2013).
Tornando alla beatificazione: se molti osservatori vedono l’atto di papa
Francesco come necessario alla riconciliazione della Chiesa
contemporanea con il cattolicesimo latino-americano, il caso del vescovo
martire in realtà è ancora aperto per alcuni importanti settori
ecclesiastici conservatori, cioè quella potente fronda all’interno della
curia che ha ritardato e impedito la beatificazione di Romero per tanti
anni, poiché ritenuto un’icona della teologia della liberazione o della
lotta politica. Due note che determinano lo strano destino di Romero,
finalmente giunto alla giusta conclusione dell’onore degli altari: la
prima, una recente storiografia riconciliatrice spiega che il vescovo in
realtà non aderì mai alla teologia della liberazione; la seconda, però
tutt’altro che provata, sembra che, come sottolinea Andrea Riccardi,
Benedetto XVI sbloccò la causa di Romero poco prima di dimettersi. Forse
potrebbe aiutarci a delineare ancor più la figura di Romero negli anni
della guerra fredda quanto disse Mons. Rivera, suo successore ed
unico vescovo salvadoregno ad appoggiarlo: “Non sono d’accordo con
coloro che presentano Romero come un uomo in talare passato alla
rivoluzione, anche se faccio mia l’affermazione che egli incarnò
pienamente, in quella realtà ingiusta di El Salvador … l’opzione
preferenziale per il povero, che la Chiesa del Concilio ci chiede”.
Quando Romero venne a Roma l’ultima volta, prima di essere assassinato,
aveva confidato, come dice Andrea Riccardi, che tornare in Salvador per
lui voleva dire morire. Aveva così chiaro cosa lo aspettasse che prima
del suo estremo sacrificio disse: « Un obispo
morirá pero la Iglesia de Dios, que es el pueblo, no perecerá jamás »
(« Un vescovo potrà morire, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non
perirà mai »).
Romero certo non difendeva la guerriglia e la rivoluzione, voleva
portare il paese fuori dalla violenza combattendo quella che chiamava
“l’ingiustizia”. Sono indicative dei principi che ispiravano la missione
pastorale le sue parole sugli eccessi della ricchezza e della proprietà
privata, le critiche alle aggressioni contro le cosiddette
“organizzazioni popolari” o le denunce dei crimini compiuti nel paese
elencati nel corso delle sue omelie per cercare di rompere la censura
del regime. Per quanto riguarda la teologia della liberazione, oggi
credo sia più opportuno parlare di più teologie della liberazione. Ci
furono preti che abbracciarono la causa delle guerriglie e delle
rivoluzioni (vedi l’esempio cubano) e molti altri che decisero di stare
come pastori dalla parte dei poveri e con la loro opera fecero vivere
quella sensibilità, quella scelta inequivocabile del Concilio Vaticano
II. Di questi fa parte Romero, che aderì in pieno a quel fiume impetuoso
di cambiamento nel quale, tra violenze e speranze di redenzione, si
trovava coinvolta la Chiesa sudamericana. E non dimentichiamo che di
questa Chiesa faceva parte anche Bergoglio.
Mi piace concludere questo mio breve ricordo di Mons. Romero con un
altro più autorevole ricordo dell’attuale Beato fatto in rima da David
Maria Turoldo:
In nome di Dio vi
prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi...
Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.
Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
cascare le braccia
ai poveri armati,
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.
Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà.
Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?
Sarà sempre così, Signore?
Gian Paolo Di Raimondo
gianpaolo.diraimondo@fastwebnet.it
Roma, 1 giugno 2015
www.omelie.org/approfondimenti
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