Riflessione sulle Letture della Liturgia
6 luglio 2003
XIV domenica per annum - Anno B

di  Alvise Bellinato

 

L’IMPORTANZA DI RIMANERE DELUSI

 

Credo che a tutti noi sia accaduto di rimanere delusi da qualcosa o da qualcuno negli ultimi tre mesi. Pensateci bene…Avevi pensato di fare un figurone all’esame, e invece è andata così così.
Ti pareva che i colleghi fossero in gamba, e invece avete discusso per i turni delle vacanze.
Tuo figlio ti aveva detto che andava a giocare a pallone, e invece frequenta un brutto giro.
Quella persona la consideravi amica, e invece hai scoperto che ti parla alle spalle.
La lista sarebbe lunga…vero?
Il Papa è rimasto deluso che non abbiano inserito alcun accenno al cristianesimo nella bozza di Costituzione europea.
Io personalmente sono rimasto deluso da una cosa più piccola, come la sconfitta della Juventus nella finale di Champions League, contro il Milan. Dopo lo scudetto in campionato e la splendida vittoria contro il Real Madrid… non me l’aspettavo proprio.
Badate bene, per favore, all’ultima frase: “Non me la aspettavo proprio”.
Il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, infatti, alla voce “delusione” riporta la seguente definizione: “Disagio morale provocato da un risultato contrario a speranze e previsioni”.
In pratica le delusioni  sono una conseguenza del fatto che l’uomo, per natura, è portato ad avere delle aspettative, a sperare, fare progetti, a pensare al futuro, ad attendere cose belle.
Alla domanda fatidica: “Perché nella vita ci sono anche le delusioni?”, la risposta più ovvia che potremmo dare è quindi: “Perché ciascuno di noi, in fondo al cuore, aspira a una vita felice”.
Solamente dove non esiste alcuna speranza, alcuna prospettiva, dove tutto è fermo, non ci sono delusioni. Grazie tante, ma in questo caso è la vita stessa a diventare deludente!
La delusione è parte della vita di tutti gli uomini sulla terra.
Se ci avesse sfiorato il sospetto che i grandi personaggi della scena internazionale, i vip, i divi dello sport o del cinema, abbiano una esistenza senza delusioni, è meglio che leggiamo i giornali: ci accorgeremo in breve di come la loro vita, su questo punto, proprio a causa delle grandi aspettative, sia spesso più drammatica della nostra.
Che fare? Smettere di sperare, per non restare delusi?
Qualcuno sceglie questa strada: l’attrazione verso certe filosofie orientali, che anestetizzano la sfera dei desideri, è diffusa ora anche nel nostro Paese, e può essere un segnale forte della stanchezza di fronte alle delusioni.

Ma la Bibbia, cosa ci dice sulle delusioni?
La liturgia della Parola di questa XIV Domenica per Annum ci dà alcune risposte molto belle su questo tema così delicato, parlandoci della delusione del profeta Ezechiele, dell’apostolo Paolo e perfino della delusione profonda, come uomo, di Gesù.
Badate bene che per “delusione” si intende proprio quello che è stato citato prima dal vocabolario: la sofferenza provocata da un risultato contrario alle speranze.
La Parola di Dio ha qualcosa di importante da dirci su questo tema.

N.B.

Non parleremo delle disillusioni. Quest’ultime sono solo illusioni (cioè proiezioni immaginarie di cose non fondate nella realtà concreta) che alla fine si rivelano per quello che sono. Le persone vittime di disillusioni hanno scelto di farsi del male da sole: si costruiscono un castello sulle nuvole che poi, grazie a Dio, un bel giorno crolla. Quando si rialzano dalle macerie occorre che qualcuno dia loro una pacca sulla spalla e dica: “Bentornato nella realtà!”.

 

LE TRE COORDINATE DELLA DELUSIONE

 

La prima coordinata di ogni delusione, di solito, è orizzontale: parte da noi e va verso il nostro prossimo. Un chiaro esempio in questo senso, dicevamo, è la sofferenza di Gesù nel Vangelo di oggi.
La seconda, più delicata, è verticale: parte da noi e va verso Dio. Si può rimanere delusi dal modo di agire di Dio: ci chiede cose che possono sembrare prive di senso, come accade a Ezechiele nella prima lettura.
La terza coordinata è come una parabola: parte da noi e ritorna a noi. E’ la delusione verso se stessi e i propri limiti. E’ quella sperimentata, e poi superata, dall’apostolo Paolo.
 


Prima coordinata: gli altri

L’atteggiamento deluso di Gesù è presentato bene nel Vangelo, nelle parole conclusive del brano odierno: “E si meravigliava della loro incredulità”. E’ una meraviglia amara, una sensazione dolorosa: le persone che gli sono più vicine, la sua gente, non lo accoglie, ma “si scandalizzavano di lui”. Gesù si rende conto di essere “disprezzato nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sappiamo che Egli ha dovuto bere questo calice della incomprensione fino in fondo, perfino coi familiari: sempre Marco, tre capitoli prima, aveva annotato come i “suoi” dicevano “E’ fuori di sé” (Mc 3,21).In questo classico caso di delusione “da altri” quello che fa più male sono le motivazioni meschine del rifiuto, oltre al fatto che la chiusura viene proprio dai più “vicini”.
Che fare?
Noi sappiamo che davanti allo stesso evento sono possibili le più disparate reazioni: c’è chi decide di sbarrare porte e finestre e chiudersi in se stesso per sempre, e chi invece si impegna per superare e riesce a far tesoro dell’accaduto per costruirsi addirittura un futuro migliore!

Qual è la reazione di Gesù?

Il primo elemento che troviamo subito in lui è la rassegnazione. Rassegnazione deriva dal Latino  trans-segnum, che potremmo tradurre “andare oltre il segno”. Gesù prende atto di questo segno evidente: non è accettato. Non nega la realtà dei fatti, non si ostina per far cambiare idea agli altri, non si ribella al “segno”. Si ras - segna, cioè accoglie il segno e va oltre, dandogli un significato preciso: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria”.

Il secondo elemento è la disponibilità a fare quel poco che può, in una situazione ostile: “solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì”. In realtà sappiamo che non è poco! Ma cogliamo lo stile di Gesù. Quando veniamo delusi dagli altri la nostra prima reazione, solitamente, è quella della chiusura: evitiamo la collaborazione e il dialogo, o diamo un taglio netto. C’è pure chi restituisce agli altri quello che ha ricevuto, con gli interessi del 50% in termini di maldicenze e ostilità. In Gesù, invece, stupisce la sua capacità di non chiudersi, ma di trovare perfino uno spiraglio per guarire qualcuno.

Il terzo elemento è il superamento veloce della delusione. Subito dopo il “si meravigliava della loro incredulità” il Vangelo prosegue, come se nulla fosse accaduto, con “Gesù percorreva i villaggi, insegnando”. L’incidente è stato breve, la vita continua: se non si è accolti in un villaggio, si va in un altro. Gesù non permette che la delusione fermi il suo cammino o distrugga la sua missione. Non si blocca a piangere su se stesso o lamentarsi e tanto meno manifesta reazioni aggressive. Sa che ci sono molte altre opportunità e decide di utilizzarle, partendo da subito. E sì che non si trattava di una cosa da poco: il passo parallelo di Luca ci dice che avevano cercato di ucciderlo!

In sintesi vediamo che la reazione di Gesù parte da una serena rassegnazione (senza ribellioni), evita la polarizzazione ostinata e approda a una grande libertà, fatta di nuove mete e prospettive.
Ora, gli atteggiamenti di Gesù non devono servirci per dire: “Lui era bravo ed era il Figlio di Dio, mentre per noi mortali non è possibile”. La sua umanità è il modello a cui noi cristiani guardiamo, per imitarlo.
Talvolta a noi sacerdoti è capitato di incontrare uomini e donne profondamente delusi dagli altri: a vari anni di distanza da una grande delusione, vivono senza rassegnazione, ripiegati su se stessi, incapaci di accettare la realtà. A queste persone Gesù rivolge oggi la domanda che aveva fatto duemila anni fa all’infermo della piscina di Betzaetà: “Ma tu, vuoi guarire?” (cfr Gv 5,6). Sì, perché ci sono casi in cui non si vuole guarire: un caldo vittimismo, nutrito della commiserazione dei vicini è preferibile all’incognita di un futuro non conosciuto. Meglio la sicurezza del regresso nelle proprie delusioni che la sfida (e la fatica!) del rialzarsi e camminare.
Ecco allora che la meditazione della Parola ci aiuta a trovare atteggiamenti giusti e la Grazia di Dio ci sostiene nel metterli in pratica. Nei momenti difficili la cosa peggiore è il non sapere dove guardare. Ma noi oggi sappiamo a chi dobbiamo guardare e sappiamo che esiste una possibilità.
Molto dipende da noi.

Seconda coordinata: noi stessi


La seconda delusione è quella che viene da noi stessi, dalle nostre fragilità, dai nostri limiti, quando ci accorgiamo che non siamo come ci aspetteremmo, quando constatiamo di avere “una spina nella carne” che ci tormenta, come ha tormentato S.Paolo.
Questa esperienza è dolorosa: l’apostolo dice che per lui fu l’equivalente di “essere preso a schiaffi”!
Proviamo un momento a entrare nel cuore di S.Paolo: nelle chiese la sua fama di neo-convertito era diffusa e suscitava le reazioni più diverse. Alcuni lo temevano (era un ex persecutore della Chiesa), altri lo ammiravano, qualcuno aveva tentato pure di ucciderlo, considerandolo pericoloso.
Nel suo epistolario vediamo tutta la passione, lo slancio e i desideri di un uomo preso completamente da Cristo. Eppure quest’uomo di Dio, questa colonna della Chiesa, questo testimone così forte e deciso, deve fare l’esperienza per lui più dura: l’accettazione di un limite “basso” (nella “carne”), proprio il più deludente e misero dei limiti. Deve sopportare l’umiliazione continua di scoprirsi incapace di fronteggiare gli “schiaffi” della delusione.
La reazione normale, in questi momenti, è quella del rifiuto: “Per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me” scrive!
Noi non sappiamo di che tipo fosse la “spina nella carne” che tormentava l’Apostolo, e in questo momento non è importante pensarci. Sappiamo che era una delusione, questo è certo. Era qualcosa che sperava di superare e che non si sarebbe mai aspettato di dover sopportare, poveraccio, per tutta la vita.
Quello che conta per noi è osservare la fase delicata della crisi di Paolo, davanti a questa delusione: c’è un percorso in tre tappe: la prima reazione, la più normale, consiste nel rifiuto deciso, seguito dalla preghiera ardente (“per ben tre volte”) e infine da una luce speciale: “Paolo, la mia potenza si manifesta pienamente nella tua debolezza!”.
Alla fine la delusione è superata e lascia il posto ad una generosa accettazione del limite. La delusione superata diventa addirittura un elemento su cui costruire la testimonianza futura di Cristo.
Se facciamo un salto alla nostra situazione, vediamo che sono possibili anche in noi, talvolta, gli stessi atteggiamenti di S.Paolo.
Oggi viviamo in una società dominata dall’efficienza e dal “look”. Come cantano giustamente i Gen Rosso, questo mondo è il mondo in cui “tutto è TOP, tutto è OK, tutto è LIGHT”, in cui lo standard è elevato e il numero delle persone che si sentono inadeguate e frustrate davanti a questo standard ideale cresce in modo preoccupante.
Anche noi abbiamo qualcosa di noi stessi che non accettiamo, che ci provoca disagio o vergogna, e che vogliamo eliminare al più presto. Ci sono cose del nostro aspetto fisico, del passato, della famiglia o della nostra storia personale, che facciamo fatica ad accettare e che costituiscono per noi un motivo di auto-delusione. Ecco allora la prima reazione, la più naturale: il rifiuto. Questo rifiuto si può manifestare nei modi più svariati, attraverso i sensi di colpa, l’evasione da se stessi, l’aggressività, il ripiegamento. Intorno a noi ci sono tante persone insoddisfatte di se stesse!
C’è chi si ferma a questa fase di insoddisfazione, e vive lunghi anni (talvolta tutta la vita) in questo rifiuto.
Qualcuno fa il secondo passo: cerca di vincere la delusione aggrappandosi a Dio. Prega molto, va in pellegrinaggio, digiuna e chiede la grazia di essere liberato. La preghiera, badate bene, serve spesso solo per ottenere il proprio scopo, per piegare Dio e non per abbandonarsi alla volontà di Dio! In questo caso, se Dio non concede quello che gli è stato chiesto, sono guai: la delusione… raddoppia.
Pochi giungono, come S. Paolo, al terzo momento: quando si accorgono che Dio non toglie la delusione, cominciano a farsi delle domande e intuiscono che forse Dio ha bisogno anche di “guaritori feriti”, cioè di persone come S.Paolo, disponibili a testimoniarlo anche nella fragilità della loro situazione personale. Spesso queste persone sono i testimoni migliori, quelli che fanno tesoro delle loro ferite e riescono a portare l’annuncio in contesti in cui i “perfetti” non potrebbero, o non sarebbero ascoltati.
Queste persone portano in se stesse il segreto più prezioso: quello di una vita riconciliata nell’amore di Dio. Dio ha preferito lasciare loro la “spina” ben conficcata, perché sapeva che, se gliela avesse tolta, sarebbero diventate superbe e avrebbero rischiato di perdere se stesse.
Chiaro, in questa vita non vediamo tutto chiaro. Lasciamo qualcosa da scoprire anche nell’altra! Ma la Parola di Dio ci dice che esiste un progetto anche nelle delusioni sui noi stessi, e che Dio può agire con la sua grazia, rendendole addirittura efficaci per gli altri.
Molto dipende da noi.

Terza coordinata: Dio


La terza, ed è la più delicata, delusione è quella che può giungerci da Dio.
Il profeta Ezechiele fu mandato a profetizzare agli Israeliti con una “rassicurazione” che sembra una presa in giro [perdonatemi l’espressione…]: “Tu sei per loro come una canzone d’amore: bella è la voce e piacevole l’accompagnamento musicale. Essi ascoltano le tue parole, ma non le mettono in pratica” (Ez 33, 22).
Se fossimo noi al posto di Ezechiele, credo che faremmo subito al Signore una domanda chiara: “Che mi ci mandi a fare, allora, Signore?”.
“Ti piace umiliarmi, Signore?”.
Quando si dice “delusione da Dio” è possibile che qualcuno di voi rimanga scandalizzato. Questa frase sembra quasi una bestemmia.
Infatti abbiamo imparato nel catechismo che Dio è il bene sommo, che ci ama infinitamente e che desidera il nostro bene e la nostra felicità. Tutto quello che fa è per il nostro bene.
Questa è la verità teologica. Che sappiamo.
Poi c’è una verità che fa a pugni con quella teologica. E’ quella che sperimentiamo ogni giorno, e che potremmo definire una verità psicologica. Che sentiamo.
Parecchie persone hanno l’impressione di essere state colpite da Dio o trattate ingiustamente. Non riescono a capire perché Dio abbia tolto loro una persona amata, oppure abbia permesso nella loro vita qualcosa di strano o li abbia afflitti con una malattia o altro.
Anche qui, la delusione porta alla chiusura. Chiusura, in questo caso, verso Dio, ritenuto colpevole del loro male. Non è una chiusura volontaria e tanto meno peccaminosa: è la chiusura di Giobbe, che dopo “averne prese tante” da Dio, si chiude in se stesso e addirittura protesta con forza. Beato lui, che riesce a verbalizzare la cosa e a sfogarsi! Infatti l’atteggiamento di chiusura è talvolta difficile da portare a livello cosciente: le persone risentite verso Dio generalmente non lo ammettono: continuano a ripetere quello che sanno su Dio, non quello che sentono davvero. Alcune sono impegnate nella Chiesa: nessuno intuisce il conflitto che portano in se stesse!
Che fare?
La Bibbia ci dimostra che solo la preghiera e la meditazione della Parola di Dio ci possono aiutare a superare questo contrasto. Perché Dio diventi il nostro migliore amico è necessario sforzarci di conoscere più che possiamo il suo modo di pensare.
Nel caso di Ezechiele, il suo modo di pensare è questo: “Ascoltino o non ascoltino, almeno sapranno che c’è un profeta in mezzo a loro”.
Vedete: il modo di pensare di Dio non è come il nostro. Per noi è importante il successo, il consenso, l’essere ascoltati, l’avere una buona reputazione, ecc.
Per Dio, no. Lui vede cose che noi non vediamo e sa cose che noi non sappiamo.
E non possiamo nemmeno discutere con Dio, dicendogli che non siamo d’accordo che ci chieda questo, perché lui per primo ha attuato in se stesso questo modo di pensare, accettando di farsi uomo, di essere umiliato e crocifisso, di morire sulla croce e risorgere per la nostra giustificazione!
Qui si gioca la scommessa più difficile: accettare che Dio la pensi così e sforzarci di capire il suo punto di vista, iniziando a pensare come lui.
Anche qui si tratta di attuare una riconciliazione: “perdonare” Dio e accogliere la sua Parola.
Non è possibile, lo ripetiamo, capire tutto in questa vita: il segreto di alcuni comportamenti di Dio nei nostri confronti sarà svelato quando andremo in Paradiso. La Bibbia ci dice che, in quel giorno, gli daremo ragione e riconosceremo che tutto era fatto per il nostro vero bene. In questa vita la preghiera serve innanzitutto per farci vivere in pace con Dio e per farci vedere come “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. Ci dona occhi nuovi, capaci di vedere la bontà di Dio, la sua Provvidenza, il suo aiuto, anche nelle cose difficili o deludenti.
Molto dipende da noi.

 

IL PARADIGMA DELLA CHIESA, DIVERSO DA QUELLO DEL MONDO

 

Vorrei concludere con un tratto della “Lettera aperta ai nostri martiri”, scritta da Pedro Casaldàliga, grande figura di vescovo in Brasile. Testimone di molti martiri, egli è poeta, profeta, scrittore prolifico. Sempre in cima all’elenco delle persone minacciate di morte in Brasile per le sue prese di posizione, ha ricevuto numerose cittadinanze onorarie e i più prestigiosi premi per essersi schierato in difesa dei diritti umani.
Questa lettera focalizza bene la prospettiva da cui i cristiani, in questa vita, guardano all’insuccesso, alla morte, alle sconfitte.

“Voi,martiri,  avete lavato le vesti delle vostre dedizioni nel sangue dell’Agnello.

E il vostro sangue nel suo sangue continua a lavare pure i nostri sogni, le nostre debolezze, i nostri insuccessi.

Fintanto che vi sarà martirio ci sarà conversione,

fintanto che vi sarà martirio ci sarà efficacia.

 Morendo si moltiplica il seme di mais.

Ci sentiamo vostra eredità, Popolo testimone, Chiesa di Martiri, diaconi in cammino in questa lunga notte pasquale del Continente, ancora tanto oscura, ma tanto invincibilmente vittoriosa.

Non cederemo,

non ci venderemo,

non rinunceremo a questo grande paradigma delle vostre vite,

che è stato il paradigma dello stesso Gesù e che è il segno del Dio vivente

 per tutti i suoi figli e le sue figlie di tutti i tempi e di tutti i popoli, in tutto il mondo,

fino al Mondo unico e pluralmente fraterno:

il regno, il regno, il suo Regno!”.