COMMENTO ALLE LETTURE

Per capire a fondo il brano di vangelo di oggi che narra dell’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme pochi giorni prima del finale tragico della sua esperienza terrena è necessario ricordare che gli Israeliti di quel tempo vivevano con ansia l’attesa del Messia, di un Messia però capace di una restaurazione politica che riportasse Israele ai fasti del passato, una specie di eroe nazionale capace di rovesciare il potere dei dominatori stranieri.

Il trionfo tributato a Gesù quella domenica era alimentato da questa aspettativa, che potremmo chiamare benissimo col nome di illusione.

Ma questo trionfo precario tributato ad un futuro probabile re (tra l’altro seduto sullo scranno traballante di un giovane puledro) non è cosa da far montare la testa a Gesù orientato al vero trionfo della risurrezione che si sarebbe verificata di lì a pochi giorni (il vero trionfo avvenuto di notte senza nessuno ad applaudire e osannare).

Gesù, infatti, non si monta la testa ma, come annota l’evangelista Marco: “Dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i dodici diretto a Betania”.

Mi piace immaginare che in quel “dopo aver guardato attorno ogni cosa” Gesù abbia provato un sentimento di profondo dolore per la cocente delusione che di lì a poco avrebbe provato la folla. Ogni illusione infatti finisce sempre in delusione.

Mi piace immaginare, a questo punto, quale insegnamento poter ricavare da questa dinamica di “illusione e delusione” che in un certo senso evoca una dinamica più profonda, quella dell’interconnessione di “amore e dolore”: amare Gesù comporta il dolore di dover abbandonare le proprie illusioni, le proprie vedute.

Amare Dio comporta, molto semplicemente, di non deluderlo. E Dio viene costantemente deluso dalla nostra condotta di vita fatta di negligenza, di fragilità, di presunzione, di tirchieria morale e spirituale, di peccato.

Amare Dio comporta semplicemente fare come Gesù che punta dritto alla croce non lasciandosi ubriacare dal fasullo trionfo del momento.

Fare come Gesù, nel precario qui ed ora del nostro vivere terreno, significa e comporta di avere l’occhio fisso al vero trionfo della risurrezione che irrimediabilmente passa, via Calvario, dalla croce.

Fare come Gesù significa accettare la dose di dolore che comporta ogni amore. Soffrire di amare è esperienza umana universale. E’ la vita ad essere così, da quando "l'Eterno" volle farsi "Tempo" (quando cioè il "nunc" volle farsi "fluens"...) tutto cominciò ad avere inizio e fine, nascita e morte, gioia e tormento, dolore e amore, danza e lamento Gesù, però ci ha anche dimostrato l’alto livello dell’amore, quello di “amare di soffrire” (livello mistico).

Cosa possibile ad una sola condizione, quella di fidarsi del Padre che gli aveva garantito il vero trionfo, il trionfo della vita senza più la morte, quello dell’amore senza più dolore.

Ma tale fiducia- fede nel Padre va alimentata di continuo, ogni giorno, e che cosa è l’Eucaristia se non la sintesi di tutto quello che sta a cuore a Dio?

Cos’è l’Eucaristia se non “l’Essere” silenzioso e nutriente di Dio dove confluisce tutto il “Dire” (Profezie), tutto il “Fare” (Incarnazione) che caratterizzano la storia della salvezza?

Il silenzio dell’ adorazione eucaristica potrebbe essere il nuovo linguaggio dell’anima intenzionata ad osannare ed applaudire il Dio delle meraviglie. L’applauso vociante si fa silenzio d’orazione.

Una curiosità: il vocabolo silenzio deriva dal verbo latino “silére” che è il fruscio prodotto dalle spighe di frumento nel loro schiudersi.

Un fruscìo plaudente che si fa orazione silenziosa e riconoscente dell’anima per l’evento risolutivo di ogni vita, quello della risurrezione, avvenuto senza applausi nel silenzio della notte.

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